Intervista a Mior

di Sabrina

Mi fa piacere farti questa intervista, che può essere anche una presentazione per coloro che desiderano conoscerti meglio. Cominciamo subito con la prima domanda: a chi è rivolto questo tuo primo libro Il germoglio?

Il nome Il germoglio indica un nuovo inizio, una nuova partenza. Di cosa tratta? L’argomento è la vita, in particolare la vita interiore: coloro che desiderano prendere contatto con la vita nei suoi aspetti intimi, profondi, con il vero cuore dell’esistenza di ciascuno di noi, possono trovare in questo libro un segnale posto lungo il cammino della loro ricerca interiore e personale. Un segnale in grado di indicare la direzione verso la quale dirigersi. Il libro vuole trasmettere anche indicazioni sullo stile esplorativo con il quale poter procedere lungo sentieri che sono celati, nascosti.
Nascosti finché non riusciamo a scorgerli, a riconoscerli e soprattutto a percorrerli.

Quali sono questi sentieri e su quale terreno si muovono?

Il territorio da esplorare siamo noi stessi. Al centro, nel cuore della nostra umanità è nascosta una perla preziosa, ovvero il seme della vita divina. Questo seme, proprio come qualunque seme, cresce da sé, non siamo certo noi a farlo crescere. Quello che possiamo fare è arare, dissodare, preparare il terreno affinché divenga il più ricettivo possibile alla crescita della pianta che ne emergerà. In tal senso, quella del germoglio è una prima fase della crescita della vita divina in noi, una fase comunque fondamentale, che coincide con il poter finalmente vedere, osservare la vita divina emergere, anche se solo di poco, dal terreno della nostra umanità.
I sentieri sui quali compiamo il nostro processo esplorativo, la nostra ricerca interiore, non li stabiliamo noi: è la vita divina che sceglie quale percorso seguire in noi, per poter crescere e emergere a proprio piacimento. Il divino ci indica la via da seguire nel corso della nostra esistenza quotidiana. È
un navigare a vista, andando incontro al mistero, allo sconosciuto, a quel che è del tutto inafferrabile e del tutto oltre ogni qualsivoglia nostro piccolo, misero schema. È lasciarsi conquistare da Lui.

Navigare a vista, ovvero...

Ovvero procedere senza schemi predefiniti. Chi naviga a vela sa che deve ascoltare il mare e il vento, seguire le loro iniziative e adattarsi ad esse. Se vogliamo il vento è il divino che ci ispira lungo il corso della traversata, mentre il mare da attraversare siamo noi stessi. Essendo noi stessi lo spazio nel quale ci muoviamo, comprendi come, essendo ciascuno di noi diverso dagli altri, non è possibile stabilire un tracciato e regole di navigazioni che siano uguali, identiche per tutti.
Perché io ho un carattere tu ne hai un altro, io sopporto il mio e un poco anche il tuo mentre tu sopporti il tuo e (parecchio forse) anche il mio. Che ci vuoi fare? Siamo diversi ed è anche per questo che stiamo bene in coppia. Inoltre tu puoi scorgere aspetti della realtà che io non riesco a vedere e così io posso scorgerne altri che tu ignori. Si naviga a vista perché non si può fare altrimenti. Illudersi che il cammino spirituale possa essere stabilito d’autorità con concili ecumenici e diritti canonici è uno stadio che oggi va superato, per il semplice fatto che possiamo farlo e che siamo invitati a farlo. Per crescere, come umanità e come individui.

Anche come coppie e come famiglie? Voglio dire... secondo te si può conciliare la vita di coppia e familiare con un percorso spirituale profondo e autentico?

Le religioni tradizionali sono legate a filo doppio ad un percorso di tipo ascetico, ovvero di distacco dalla terra, dal corpo, dalla sessualità, dall’istintualità, dall’emotività. È stato più semplice mettere da parte queste istanze e concentrarsi sul cuore, sui sentimenti, sull’altruismo, sull’obbedienza ad un’autorità gerarchica e ad una verità prestabilita, calata dall’alto. È stato come mettere un confine dentro di noi, con un cartello che diceva: «Al di là di questa linea non si può andare». È stato come tracciare un recinto: «Noi alleviamo noi stessi dentro questo recinto, perché fuori ci sono antri, foreste, rocce, dirupi, precipizi, acque impetuose…» ovvero realtà difficili da affrontare, da conciliare con la vita profonda, con un’esigenza di pace, di amore e di chiara visione delle cose.
L’istinto, per dire, è una realtà molto tumultuosa e non è facile da utilizzare per la vita interiore. È come prendere un bisonte selvaggio e cercare di addomesticarlo, fino a che non si riesce ad andarci al passo, al trotto, al galoppo.
Così l’ascesi è il tentativo di distaccarsi da tutto questo, nell’idea, per certi versi molto fuorviante, che il distacco dalla terra avvicini al cielo, identificato in questo caso con la realtà divina. Ma il divino è presente ovunque, fuori di noi e anche dentro di noi, ad ogni livello della nostra esistenza, quindi anche nel nostro corpo fisico, nella nostra sensorialità, nella nostra istintualità, nelle emozioni più caotiche e disordinate: lì è presente la realtà divina. Oggi siamo chiamati ad accogliere questa sfida, una sfida che a ben guardare risulta più grande e impegnativa rispetto a quelle poste dalle spiritualità del passato: includere nel nostro percorso interiore tutta quanta la nostra realtà, compreso quel che un tempo veniva messo ai margini, tagliato fuori, visto come minaccioso e quindi da non avvicinare.
Tornando alla domanda che mi hai posto, posso dirti che non solo la vita di coppia è conciliabile con la vita interiore ma anche che è auspicabile, perché nella vita di coppia si può prendere veramente contatto con gli aspetti più concreti di noi, tra cui la sessualità. Attraverso la vita in famiglia si prende contatto con la concretezza dell’esistenza, con le esigenze più prossime e materiali come quelle della sussistenza e della sopravvivenza.
Cambiando i presupposti, cambiano inevitabilmente anche le modalità di un percorso: se io penso di raggiungere il cielo staccandomi dalla terra, una vita solitaria, celibataria, può essere un buon modo. Ma se io voglio unire in me il cielo con la terra, se voglio veder conciliate queste due polarità, appartenenti entrambe alla vita, alla mia vita… allora il celibato mi porta fuori strada, allora ho bisogno di vivere una vita pienamente calata nella corporeità, nell’emotività, nell’intimità. A questo punto la relazione di coppia diviene un’ottima palestra, per poter realizzare questo. E, insieme ad essa, metterei la relazione tra genitori e figli, un frutto diretto del rapporto di coppia.
Certo, come si suol dire, “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. Questo per dire che sì, la vita in famiglia rappresenta senz’altro l’occasione per una crescita equilibrata, per una maturazione umana a tutto tondo. Ma è anche vero che, immersi negli impegni lavorativi e familiari, è facile che ci si lasci fagocitare da questi, tanto da relegare la meditazione ai margini della propria quotidianità. Ovvero a quando, dopo aver espletato ogni altro impegno, avanza un poco di tempo. Ma in questo modo non si va molto avanti.

Alcuni, quando vengono invitati alla meditazione quotidiana, rispondono: «Purtroppo non ho tempo. Sai il lavoro, i figli...»

Che dire? Personalmente ho avuto modo di dedicare, per diversi anni, diverse ore al giorno e giornate intere alla meditazione; ho allentato un poco il ritmo quando è iniziata la convivenza con te, ovvero dopo i miei 40 anni, e soprattutto con la nascita di nostra figlia, a 45 anni compiuti. Ho anche avuto la possibilità di non dovermi guadagnare il pane, potendomi così dedicare interamente al lavoro interiore. Attenzione: non è che io non abbia lavorato! In realtà il lavoro interiore mi ha assorbito in misura sempre maggiore, fino a divenire il punto focale di tutta quanta la mia esistenza. Questo è accaduto allorché ogni avvenimento della vita è divenuto un’occasione per progredire, per fare un ulteriore passo avanti. Se ci penso, cosa posso dire? Beh, che in realtà ho lavorato veramente come un matto, di giorno e anche di notte, senza ferie (da quelle parti sembrano non conoscerle): in più di trent’anni… dire che ho vissuto un paio di giorni di ferie dal lavoro interiore sarebbe già dire tanto! Infatti, anche andando in vacanza, l’ho sempre portato con me. O forse è lui che mi ha portato con sé…

Comunque sia, le condizioni di vita sono differenti per ciascuno. Quel che credo è che se noi siamo seriamente intenzionati a realizzare la vita divina, la vita stessa non mancherà di venirci incontro – dato che questo è, come dicevamo, lo scopo di tutta quanta la creazione – fornendoci la concreta possibilità di operare in tal senso, nel modo che risulta essere il migliore per noi. Ciò non riguarda solamente la concreta possibilità di meditare per tutto il tempo che ci è necessario, riguarda anche le difficoltà che la vita ci metterà davanti: saranno esattamente quelle di cui avremo bisogno per crescere – per crescere noi, ma soprattutto perché il Sé cresca in noi – e per farlo al meglio.

Quindi, se ho capito bene, il titolo “Il germoglio” si riferisce proprio a questo: è un invito a far crescere il germoglio del Sè interiore...

Il germoglio è qui usato come un simbolo, e come tutti i simboli è portatore di diversi significati, che non si escludono affatto a vicenda. Questo è sicuramente un significato: la crescita della vita divina dentro di noi. Ma non è l’unico; un altro, ad esempio, è l’idea di qualcosa che pian piano sta crescendo nel mondo. Questa è una spiritualità universale, qualcosa che va al di là dei confini tracciati un tempo dalle diverse religioni; è un guardare all’essere umano così com’è e nella consapevolezza che ogni approccio al divino ha i suoi limiti e che nessuna religione o percorso spirituale può dirsi in tal senso esaustivo.
Ma “il germoglio” è al tempo stesso un simbolo di vita, di vita naturale. La natura è un tema fondamentale, perché noi veniamo dalla natura e viviamo grazie ad essa. Nel percorso ascetico, proprio delle religioni tradizionali, si tende ad andare, almeno in parte, contro la propria natura. Oggi siamo chiamati ad andare nel profondo della nostra natura, a raggiungere la natura divina che, senza possibilità di paragoni, rappresenta la più importante tra quelle che vivono in noi. Vita divina che non solo non si oppone a quella umana, ma che in noi può sorgere grazie alla nostra umanità e non a discapito di questa.
Il germoglio rappresenta quindi, in tal senso, la fuoriuscita della vita divina dalla terra della nostra umanità.

Dalla coppia alla famiglia. Visto che sei un papà, ti chiedo: cosa pensi dei bambini di oggi?

Penso che vivano in un mondo che ha enormi potenzialità. Vivono anche una forte difficoltà data dal doversi orientare in una realtà nella quale tante cose nuove sono sbocciate, ma senza essere giunte ancora a maturazione. Quindi la loro sfida è poter cogliere il meglio di ciò che la vita oggi offre a loro, riuscendo a discernere la vita reale dalle suggestioni ingannevoli, da quel che non è vita autentica. La sfida è nel riuscire a discernere quel che è autentico e sincero rispetto ai tanti messaggi ingannevoli, venduti come merce data in pasto all’ego, divulgati anche attraverso i tanti canali comunicativi che abbiamo oggi a disposizione.
Perché la vita non è una merce: la merce è un livello semplice e di poche pretese, legato all’utilizzo dei beni di consumo; ma per poter incontrare e gustare la vita nelle sue profondità, dobbiamo andare ben aldilà di tale livello, raggiungendo quel che in noi brilla senza scopo, se non quello di ardere a tempo indeterminato.

Torniamo a parlare di te: sei solo o vivi in coppia?

Convivo da dieci anni con la mia attuale compagna, che poi saresti tu. Il nostro è un rapporto che va avanti da più di dodici anni; sette anni fa abbiamo avuto una bambina.

Hai avuto una qualche formazione accademica? Quale?

Dopo il liceo classico mi sono laureato in Filosofia e poi in Psicologia. Successivamente ho fatto una scuola di specializzazione in Analisi bioenergetica (una psicoterapia ad indirizzo corporeo), che non ho finito; alla fine dei cinque anni di corso mi mancava veramente molto poco per poter prendere il diploma, ma vi ho volontariamente rinunciato quando ho capito che non era quella la mia strada. Ho preso invece un diploma in Integrazione posturale, una tecnica che mira ad incidere sui vissuti emotivi attraverso la manipolazione del tessuto connettivo; ad un certo punto ho fatto anche degli studi di Teologia, non conclusi.
Praticamente sono partito dall’astrattezza filosofica – che già coltivavo al liceo, perché la Filosofia era la materia che studiavo più volentieri – per passare poi alla Psicologia, che è una scienza applicata; ho frequentato poi il corso di Analisi bioenergetica, disciplina che utilizza esercizi corporei a scopo psicoterapeutico. L’integrazione posturale, infine, ha chiuso il mio percorso dall’astratto al concreto.
Sono partito dalle astrattezze della metafisica e sono arrivato, ehm… con le mani nella pancia dei miei compagni di corso per cercare, manipolando il loro tessuto connettivo, di aiutarli a far emergere emozioni e vissuti sepolti. In mezzo ci sono stati degli studi di Teologia: d’altronde come può il divino, essendo dappertutto, avere una precisa collocazione?

Si può essere felici, secondo te, vivendo in questa società moderna, così edonista e frenetica?

Come dicevo prima, è importante prendere il meglio di quel che il mondo ci offre, quel che riconosciamo come autentico. È bene cogliere le potenzialità, che noi oggi abbiamo e che ieri non avevamo, ma è saggezza utilizzarle per il nostro bene, per la nostra vita profonda, interiore, quella che non passa, quella che non appassisce… per noi, nella nostra realtà più vera e autentica.
Dobbiamo riuscire a camminare nel mondo di oggi un po’ come un esploratore nella giungla, facendoci strada a volte con difficoltà, togliendo davanti a noi i rami che, ostacolando il nostro cammino, possono rallentarci. Rallentarci nel nostro percorso verso la vita divina.
La felicità da ottenere non è un momentaneo stato di benessere, ma l’imperitura realizzazione del divino in noi.

Come si può, allora, superare il cosiddetto mal di vivere?

Se questa sterpaglia che troviamo davanti a noi, il buio che vuole rallentare e fermare il nostro procedere, riesce a imprigionarci, a bloccare le nostre più autentiche aspirazioni, il nostro anelito verso realtà straordinariamente feconde e eternamente vive, allora possiamo sperimentare il mal di vivere. Quando questa sterpaglia riesce a bloccarci come in una gabbia, probabilmente perché noi stessi le abbiamo dato spazio dentro di noi, allora effettivamente lo slancio vitale può lasciar posto ad un malessere, perché la vita perde il contatto con se stessa: perde il cammino, perde la direzione, perde lo scopo per il quale vale la pena vivere. La vita, nel profondo, diventa un malessere.
Noi possiamo star male anche camminando lungo un sentiero interiore, anzi questo è un aspetto inevitabile, dato che lungo il percorso il nostro ego deve arretrare fino a morire del tutto.
Lo sgonfiamento, la riduzione e poi la morte dell’ego è un processo senz’altro doloroso. Però al tempo stesso possiamo sperimentare che, se procediamo lungo un autentico sentiero di crescita e realizzazione interiore, nonostante i disagi, le sofferenze e le difficoltà, nel profondo restiamo e diveniamo, e lo diveniamo sempre di più, autenticamente vivi.

E quindi come ci si può districare tra le difficoltà che la vita ci mette davanti? Come si può proseguire con gioia e voglia di vivere?

Questa è la sfida che la vita lancia ad ognuno di noi: riuscire a procedere nonostante le difficoltà. La vita interiore, proprio perché è vita e non teoria, si nutre di una pratica. Questa pratica possiamo chiamarla meditazione, in altri contesti viene chiamata preghiera. La meditazione è il nucleo di ogni cammino e progresso interiore: si cammina innanzitutto nella meditazione.
Un libro, come può essere anche Il germoglio, è un indicatore per poter conoscere, o per lo meno intuire, la direzione verso la quale poter camminare. Ma è anche è un modo per ritrovarsi, scoprendo un vissuto comune che permetta di affermare: «Ecco, questa può essere la strada giusta: un altro ha fatto il percorso prima di me, un altro ha trovato quel che io cerco».
Comunque nella vita interiore non si avanza senza un ascolto profondo di se stessi. Per poter realizzare questo tipo di ascolto, c’è bisogno di un lungo tirocinio di apprendimento – svolto attraverso una pratica meditativa costante – durante il quale, man mano che si procede, si riescono ad aprire certe porte: allora l’interiorità viene gradualmente invasa da un’energia che è pace, vita, amore, luce.
Questa energia ha il potere di trasformare la persona radicalmente, un passo dopo l’altro.

Quanto conta, secondo te, il rimanere concentrati sul momento presente?

Il presente è la vita, ciò che ci è dato di vivere. Non è bene vivere nel passato o troppo proiettati nel futuro. La vita è nel presente, quindi il presente è fondamentale come lo è la vita stessa. Al contempo noi abbiamo delle radici che sono molto profonde: il passato è in qualche modo parte di noi, perché noi scaturiamo dal nostro passato, siamo un frutto, un prodotto della vita passata e questa ci appartiene. Il passato ci appartiene come potenzialità, perché se troviamo in noi delle potenzialità più sviluppate di altre, individualmente parlando, è perché le abbiamo coltivate nel corso delle nostre vite precedenti; ma il passato ci appartiene anche come limite, come condizionamento, a motivo dei traumi vissuti non solo in questa vita ma anche e sopratutto in precedenti esistenze. I traumi che ci portiamo dietro dal passato continuano a influenzare la nostra vita attuale, contribuendo a creare in noi paure, disagi, fragilità. Quindi conoscere il proprio passato è una cosa che può aiutare la vita presente.
Al tempo stesso il futuro è presente in noi come aspettative circa noi stessi e circa il mondo che ci circonda, come compiti da realizzare, come possibilità che possiamo scegliere perché siano attuate. Anche il futuro influisce enormemente sul nostro presente.
Passato, presente, futuro sono tre direzioni temporali, analoghe a quelle spaziali dell’altezza, dell’ampiezza, della profondità. Tutte e tre le direzioni temporali che percorriamo sono importanti, però la vita è nel presente, e questo fa sì che il passato e il futuro trovino una ragion d’essere nel presente e non viceversa.
Se accade il contrario entriamo in un processo di alienazione, appunto dalla vita, dalla realtà, dal presente. Questo può accadere, ad esempio, usando nostalgicamente il passato per fuggire dall’esistenza attuale; allo stesso scopo possiamo utilizzare le aspettative, i timori, le programmazioni riguardanti il nostro futuro. È bene che passato e futuro non ci discostino dal presente, ma che al contrario ci aiutino a viverlo fino al momento in cui il presente non si espande in tutte le direzioni, passato e futuro compresi. Lì possiamo toccare il livello della vita divina: trascendendo lo spazio e il tempo, il divino trascende sia passato che presente che futuro, in quel livello di esistenza che chiamiamo Eternità, ma che possiamo anche chiamare “eterno presente”; l’Eternità non è un tempo senza fine, ma una vita al di là del tempo, che non subisce lo scorrere del tempo ma può, se vuole, utilizzarlo a proprio piacimento.
Come ogni altra cosa, del resto.

Tu hai avuto una prima formazione religiosa cattolica. Quanto può aver inciso tale percorso nella tua attuale spiritualità?

A proposito di radici… il cristianesimo fa parte delle mie radici, almeno in questa vita. Una religione, una spiritualità sono anche una visione del mondo, di noi stessi e della nostra storia. È qualcosa che in noi pesca molto, molto a fondo. Quindi, sicuramente, il cattolicesimo non può che aver inciso dentro di me; per me è stato come un primo livello. Noi come umanità, ma anche come individui, passiamo attraverso diversi livelli di formazione, esattamente come avviene nella scuola.
Le religioni tradizionali sono il livello della scuola primaria o scuola elementare; i culti precedenti – parlo del paganesimo e delle varie forme di politeismo – sono un po’ come la scuola dell’infanzia o asilo. Adesso siamo chiamati a coltivare una spiritualità più matura, più disincantata, più libera da autoritarismi e da sovrastrutture: qualcosa che può corrispondere alla scuola secondaria di secondo grado o scuola superiore. In tale visione, la scuola primaria di primo grado o scuola media è rappresentata da quelle correnti, presenti in seno alle religioni tradizionali, che sono più libere, più spirituali, più mistiche rispetto all’impostazione classica dei rispettivi credo, come il sufismo nell’ambito dell’islamismo, la cabala in seno all’ebraismo, il movimento pentecostale nell’ambito del cristianesimo. Questi movimenti si mostrano più avanzati rispetto al contesto nel quale sono sorti, purché non cadano in un chiuso e rigido integralismo.
Diversi anni fa sono stato preso e portato da un’altra parte… parlo di un’esperienza interiore: interiormente mi trovavo in un dato luogo e qualcuno, un’entità spirituale, mi ha portato in un luogo differente. Possiamo chiamarlo un passaggio dal regno dell’anima a quello dello spirito. Qui, nel regno dello spirito, ho iniziato a coltivare un nuovo approccio alla vita, a me stesso e soprattutto alla realtà divina; questo nuovo approccio è quello che io desidero proporre a coloro che, per la loro stessa vita, si sentono chiamati ad iscriversi a quello che, negli studi, corrisponderebbe ad una scuola secondaria di secondo grado: a coloro che vogliono fare un salto nella consapevolezza e nella libera espressione delle proprie, più profonde e nascoste potenzialità interiori… e non solo interiori.

Pensi che la spiritualità orientale e quella occidentale possano trovare un punto di incontro?
L’oriente e l’occidente sono come l’occhio destro e l’occhio sinistro attraverso cui l’umanità guarda se stessa, guarda la realtà, guarda la vita, contempla il divino. Quindi un incontro tra spiritualità orientale e occidentale non solo è possibile, ma è fortemente auspicabile, soprattutto se si tratta di un incontro autentico, profondo, nel quale vengano valorizzati i punti di forza di entrambi gli approcci. A quel punto si può avere una nuova visione, più completa, più ricca, in grado di accogliere il meglio della tradizione occidentale e di quella orientale. In questo incontro è fondamentale che possano svilupparsi nuove prospettive: quelle che oggi è possibile abbracciare, ma che fino a ieri erano poco o niente affatto presenti nei nostri vissuti, nella nostra cultura e quindi nella nostra spiritualità.
Tra queste nuove prospettive c’è quella da me proposta, attraverso libri, video, meditazioni guidate e incontri.
C'è qualcuno che consideri tuo maestro?
No, non c’è nessuno che svolga questo ruolo nella mia vita. Essendo stato io stesso chiamato a dar vita a qualcosa di nuovo… credo sia stato necessario farlo senza seguire qualcun altro se non, per un certo periodo, le mie guide interiori, e negli ultimi anni me stesso, ovvero il Sé, la luce divina che brilla in me come in ognuno di noi.
Se c’è un maestro per me è il Sé divino. Il Sé ha creato in me una dinamica particolare, avendomi reso al contempo maestro e allievo di me stesso.
In che modo, nella vita concreta di tutti i giorni, il Sé divino ti guida?
È qualcosa che è mutato nel corso del tempo.
Quando ho iniziato a vivere il rapporto con il Sé alla stregua di un rapporto tra maestro e allievo, il Sé era la mia principale sorgente d’ispirazione accanto ad altre: in particolare, mi suggeriva cosa fare nelle concrete situazioni della vita e guidava la mia meditazione.
Ora è un po’ diverso. Ora posso dire che io stesso sono il Sé, non riuscendo più a percepirmi come un essere diverso da lui.
La mia umanità è il suo vestito.
Hai paura della morte?
A dire il vero no. C’è un timore istintivo, legato all’istinto di sopravvivenza, che non posso cancellare e che è bene non cancellare, perché è parte di tutti noi, della nostra natura umana. La nostra natura ha delle radici che affondano nel comportamento degli animali, nella vita dei vegetali, dei minerali. Ma a prescindere da questa reazione istintiva… no, non ho affatto paura della morte.
Anzi, immagino il momento in cui lascerò questo mondo come un evento pieno di festa, di grande festa; come quando uno ha portato avanti un compito bello, ma anche faticoso, doloroso, e tutto si è compiuto, tanto che si può godere non solo un meritato riposo, ma anche una vita più espansa, più libera dai condizionamenti che il corpo e la mente portano inevitabilmente con loro.
Penso che avverrà quando sarà il momento, né prima né dopo.
Molte persone però temono la morte, e questo influenza tutta la loro vita. Cosa possono fare per vincere questo timore... ancestrale?
Possono raggiungere, contattare un livello di esistenza che è sopito dentro di loro e che travalica lo spazio e il tempo, travalica il legame con la mente, con il corpo fisico, con i corpi sottili della sfera naturale (cosa sono lo spiegherò in un prossimo libro) e con la loro caducità. Più siamo in contatto con il Sé, con il divino che vive in noi, meno la morte riesce ad esercitare potere su di noi, in quanto il Sé non viene toccato dalla morte. Se crediamo che la nostra vita si esaurisca nella presente esperienza terrena, crediamo che con la morte perdiamo noi stessi, perdiamo tutto; a quel punto non possiamo che averne una forte paura, magari un vero e proprio terrore.
Il ricomprendere la morte come un momento della vita terrena, la vita terrena come un momento di un ciclo di vite molto più vasto, questo ciclo di vite come un momento di un’esistenza infinitamente più piena, ovvero come un momento della vita divina, ci permette di collocare la morte al giusto posto. Ma questo dobbiamo viverlo, non semplicemente pensarlo. Attraverso la trasformazione del nostro essere cambia anche la percezione delle cose: di noi stessi, della vita, del mondo. Quindi anche la percezione della morte.
Tu credi nella reincarnazione, giusto?
La nostra esperienza di vita è molto più vasta di questa singola esistenza che oggi ci troviamo a vivere. La nostra vita affonda le sue radici in un lontanissimo passato: siamo partiti dalla vita minerale e, attraverso la vita vegetale, siamo diventati prima animali più semplici, poi animali più complessi; infine siamo approdati alla vita umana. La vita non fa le cose di colpo, dal nulla al tutto, ma c’è un percorso che si compie per poter arrivare ad ottenere qualunque cosa che sia realmente preziosa, autentica e duratura. La nostra vita umana è una di queste cose.
Pensare che il divino abbia creato l’essere umano così com’è già da subito, bello e pronto, fa parte di una visione che prima ho chiamato da scuola primaria. Ma anche la Bibbia dice che Dio ha tratto Adamo dalla terra, e se leggiamo ciò in chiave simbolica, ossia cogliendone il senso più profondo, possiamo vedere questa “terra” come l’intero percorso che precede la vita umana, fatto in stadi di vita più semplici. Ognuno di noi è il frutto di un lungo processo evolutivo – non sto parlando dell’evoluzione della specie, ma del percorso che compie ogni singolo individuo –, processo che si compie un passo alla volta, vita dopo vita, attraverso i diversi stadi che vanno dal minerale all’umano.

La vita divina è, se vogliamo, lo stadio finale, terminale di tutto questo movimento. Nella realizzazione della vita divina abbiamo una chiusura del cerchio: scaturendo dal divino, siamo chiamati a tornare al divino. Solo che, alla fine del percorso, noi torniamo al divino come entità autonome, come entità divine e non più come qualcosa di semplice semplice, quali eravamo al nostro primo livello di esistenza, quello minerale.
È affinché ognuno di noi possa chiudere questo processo che tutto quanto accade nell’universo. E quando parlo di noi che torniamo al divino non mi riferisco solamente a coloro che attualmente si trovano nel livello umano di esistenza, ma parlo anche degli animali, delle piante, dei minerali, che un giorno, attraverso un lungo percorso, approderanno alla vita umana e quindi alla possibilità della realizzazione divina.
Solo l’essere umano può realizzare la natura divina; questo è uno specifico della vita umana. Ecco perché è così complessa, confusa, caotica: perché è come un grande parto. La vita umana è il parto della vita divina. Più siamo nella fase finale di questo parto, più ne sentiamo anche il dolore, il travaglio, godendo della gioia di poter osservare il nuovo nato affacciarsi alla vita.
L’universo pienamente e totalmente divinizzato sarà lo stadio ultimo e definitivo, l’approdo finale di tutta questa giostra, lo scopo di tutta quanta la creazione.

Quali prospettive pensi abbiano il mondo e l’umanità attuale?
Credo che stiamo vivendo un passaggio molto importante, nel quale le strutture che nel passato coagulavano il corpo sociale sono crollate; nel loro decadere, sono state abbandonate dalla maggior parte delle persone. Parlo in particolare delle religioni tradizionali, fulcri e colonne a partire dalle quali sono state costruite le società del passato. Ora si tratta di ricostruire sulle macerie, no?
Quello che un tempo fu… ora non va più bene per noi, lo troviamo inadeguato, non ci sembra sia capace di dare risposte a noi e alla nostra vita, per come ci percepiamo e per come la percepiamo. Gli antichi percorsi hanno perso, tra le altre cose, l’impatto sul nostro immaginario simbolico; impatto che nei tempi andati fu potente, dirompente, efficace nella sua capacità di smuovere a fondo le coscienze. La religiosità che, per secoli e fino agli ultimi decenni del secolo scorso, aveva ispirato interi popoli per decine e decine di generazioni, mostra di non essere più in grado di coltivare le nostre potenzialità, quelle che nel frattempo abbiamo scoperto di avere e con le quali vogliamo procedere da qui in avanti.
Quindi il nostro futuro sarà fortemente legato a quello che, d’ora in poi, riusciremo a costruire per noi stessi, per il pianeta, per coloro che lo abiteranno… che poi saranno le stesse persone, tornate su questa Terra per completare il loro percorso.
Quindi il nostro futuro dipende da noi. Adesso siamo in una fase molto delicata, una fase critica; una crisi che, smuovendo nuove energie, ha il potere – se ne sappiamo approfittare – di darci una spinta verso il cambiamento e il rinnovamento, aiutando così il nostro risveglio.
È questo il tuo augurio?

Sì, mi auguro che le persone (e quindi anche coloro che si fossero imbattuti in questo nostro colloquio) sappiano andare oltre gli schemi ereditati dal nostro passato, dalle civiltà che ci hanno condotto fino a qui e che ci hanno permesso di essere quello che siamo. Andare oltre non per abbracciare un vuoto senza senso, come purtroppo a volte capita, ma andare oltre per raggiungere qualcosa di più… nostro, qualcosa che è più vicino a noi stessi.
Mi auguro che ciascuno possa rendersi conto che non ha più bisogno di qualcun’altro che gli dica «Tu devi fare così… non devi fare così…», come fosse un bambino che, non sapendo nulla della vita, va… come dire… imboccato.
Consapevole ciascuno di avere in se stesso tante potenzialità, mi auguro che le usi innanzitutto per attingere dalla sorgente della vita divina quell’acqua che sola può saziarlo, dissetarlo e rinfrancarlo.

Grazie.

Grazie a te per la disponibilità.